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Si dice che la lingua sia lo specchio della società in cui viviamo. Descrive il nostro presente e traccia una linea diretta per il futuro, e per questo è in continuo mutamento. Oggi ci sta dicendo chiaramente qual è questa direzione, che può essere riassunta in una parola: inclusione. Prima di farsi prendere dal panico, alzare le mani all’invocazione di “non si può più dire niente” o scagliarsi contro asterischi o lettere dalle strane forme capovolte, forse è il caso di fermarsi un secondo. Se siete qui, è probabile che vi sia arrivata la richiesta di utilizzare un linguaggio più “inclusivo” sul posto di lavoro.
Oppure, vi siete resi conto che il vostro marchio e il vostro marketing, non coinvolgendo e rappresentando la pluralità di voci, identità e pensieri, rischia di rimanere tagliato fuori da quella che oggi rappresenta a tutti gli effetti una fetta di mercato. Come vedremo nei prossimi paragrafi, infatti, l’inclusive marketing “premia”: i consumatori, Millennials e soprattutto quelli della Generazione Z, tra un brand inclusivo, sostenibile ed etico e uno no, sceglieranno il primo.
O ancora, volete semplicemente sapere “cosa vuol dire comunicare inclusivo”? E perché oggi non è solo importante ma essenziale?
Scopriamolo in questo approfondimento, insieme a una guida pratica.
L’inclusività nel linguaggio e nella comunicazione
Vi sarà senz’altro capitato di imbattervi, aprendo un qualunque social, in profili o pagine che scrivono “carə tuttə” o “car* tutt*”, solo per fare un esempio. Spesso, questi tentativi hanno polarizzato il dibattito pubblico, scoperchiando il vaso di Pandora. Al di là delle possibili polemiche, però, anche in Italia finalmente si è arrivati a parlare di una lingua che sia maggiormente inclusiva e, di conseguenza, più in generale, di una comunicazione inclusiva. Ma cosa intendiamo?
Di cosa parliamo quando parliamo di “linguaggio inclusivo”
Come abbiamo detto, il modo in cui comunichiamo è frutto della società in cui viviamo. Al tempo stesso, però, la plasma e aiuta a cambiarla. Come scrive Parlare Civile, progetto volto a fornire un aiuto pratico a giornalisti e comunicatori per trattare con linguaggio corretto temi “a rischio”, Non esistono parole sbagliate. Esiste un uso sbagliato delle parole. Oggi, in un mondo multi-tutto, non ci si può rifugiare dietro “si è sempre detto/scritto così”. Per questo, è necessario fermarsi e riflettere sul linguaggio che si usa.
Potremmo dire che il “linguaggio inclusivo” accoglie questa pluralità, non discrimina e si basa su rispetto ed empatia. Ecco perché deve essere libero da parole, espressioni o toni aggressivi, che rispecchiano pregiudizi, stereotipi, cliché o bias cognitivi offensivi. In Italia, il dibattito è soprattutto incentrato sulla questione linguistica del genere e del cosiddetto maschile sovraesteso, dato che la nostra lingua, a differenza dell’inglese ad esempio, non prevede un genere “neutro”. Ma in realtà il discorso è molto più ampio e complesso di così. Per riassumere, il linguaggio inclusivo non deve:
- rafforzare stereotipi di genere, ad esempio “le donne non sanno guidare”;
- non portare avanti pregiudizi o convinzioni razziste, ad esempio “i criminali sono perlopiù stranieri”;
- non discriminare le persone in base all’età (quello che viene definito ageism), come ad esempio “sei troppo giovane/vecchio per questa mansione” o ancora “Serve maggiore creatività, inseriamo talenti più giovani”;
- non essere abilista, ossia non discriminare le persone con disabilità: quindi, evitare termini ed espressioni come “costretta in carrozzina”, “invalido”, “diversamente abile”.
Comunicazione inclusiva: è una roba che se magna?
Come sappiamo bene, soprattutto noi che ci abbiamo le mani in pasta tutti i giorni in questo mondo, la comunicazione oggi è transmediale e viaggia su più livelli. Quella inclusiva comprende quindi la narrazione per immagini, grafiche, video: deve anch’essa tenere conto di questa molteplicità e di restituire all’utente – di qualunque età, genere, etnia – un mondo che sia davvero rappresentativo e non discriminatorio, offensivo, e che non rispecchia (più) la realtà.
Un esempio? Banalmente, l’associazione rosa-femminile e blu-maschile anche nell’utilizzo di pubblicità, grafiche o altro. Un caso emblematico di questo cambiamento in atto è quello che riguarda l’Istat che, ogni anno, pubblica la classifica dei nomi più diffusi tra i neonati e le neonate con una rappresentazione grafica dei dati. Nel 2014 ha pubblicato due grafici a barre in cui i nomi femminili sono stati associati al colore rosa, mentre quelli maschili al classico blu, con tanto di disegni di due neonati stereotipati. Nulla di sorprendente. Quest’anno però le cose sono cambiate: nessun disegno di bebè e, attenzione, una nuova scelta dei colori, un arancione per i nomi femminili e un verde per quelli maschili.
Oltre alla questione del genere, la comunicazione inclusiva deve tenere conto dell’accessibilità dei contenuti web. Sottotitolare i video è un modo per renderli accessibili a tutte le persone sorde o ipoacusiche. Così come bisognerebbe limitare l’uso delle emoji perché queste vengono lette ad alta voce dalle tecnologie assistive, rendendo quindi poco fruibile un contenuto web.
Copywriting inclusivo: qualche esempio pratico
Comunicare inclusivo si può! Non è semplice, è vero, e in tutti tutti i casi non sempre è possibile, specialmente a livello di scrittura. Concentriamoci ora sul copywriting, e quindi su tutte quelle questioni pratiche che riguardano contenuti che andranno su siti web, newsletter, social media, e-mail, e molto altro.
Come abbiamo detto, in italiano l’ostacolo più grande da superare riguarda l’utilizzo del maschile sovraesteso, in quanto non esiste un genere “neutro” nella nostra lingua. O ancora meglio, un genere che esprima la pluralità. Quando ci si riferisce a un “tu” non meglio specificato o a gruppi misti, il genere maschile “prevale” sul femminile. Un esempio? Il classico “buona serata a tutti”, “benvenuti”, “iscriviti alla nostra newsletter per restare sempre aggiornato”: tutti casi in cui si declina al maschile, nonostante nell’audicience a cui ci si rivolge possono far parte ogni genere di persone.
Come fare quindi per evitare il maschile sovraesteso? Ecco alcune soluzioni suggerite da TDM magazine:
- si può cambiare il soggetto in modo da non usare un participio passato;
- usare delle perifrasi;
- cercare sinonimi di verbi, sostantivi e aggettivi;
- cambiare punto di vista della frase;
- omettere sostantivi, pronomi e aggettivi per lasciare che sia il verbo a definire il soggetto.
Ma facciamo degli esempi pratici. Invece di “grazie per esserti registrato alla nostra newsletter” si può tranquillamente scrivere “Grazie! Presto inizierai a ricevere la nostra newsletter”, senza specificare a chi ci si sta rivolgendo. O ancora, invece di “benvenuto” perché non provare con “Ti diamo il benvenuto”? Al posto di “Buone notizie, ti abbiamo selezionato!” si potrebbe girare il periodo: “Buone notizie, la tua candidatura è stata accettata!”.
Nel caso poi di parole che che fanno riferimento a gruppi misti di persone possiamo usare sostantivi generici che definiscono categorie, cariche, posizioni o ruoli, come la “comunità scientifica “ al posto di “scienziati”, “il personale medico” o “l’équipe medica” invece di “medici” e così via.
Altro caso riguarda la parola “utenti” o “clienti”, termini che possono essere declinati sia al maschile che al femminile. Invece di scrivere “facciamo felici i nostri clienti” si può optare per “facciamo felice la nostra clientela”, o ancora provare a trovare sinonimi, come “persone”.
Sconsigliato, in generale, l’uso di un/una, “i/le” clienti: sarebbe meglio evitare soluzioni che riducono la leggibilità, come le sbarre e le parentesi, poco apprezzate anche da Google e compagnia. Stesso discorso per lo sdoppiamento: se in alcuni casi, come nelle formule di apertura “signori e signore”, può valere, nei testi troppo lunghi lo sdoppiamento appesantisce la lettura e rende il periodo poco scorrevole.
Perché comunicare inclusivo?
Gli esempi da fare sono potenzialmente infiniti. Purtroppo, specialmente per quanto riguarda la scrittura per il web, non sempre c’è la possibilità o lo spazio (in numero di battute) per usare sia il maschile che il femminile o girare i periodi. Una soluzione può essere quella, in certi casi, di esplicitare subito, in apertura di un testo o articolo, del fatto che si è consapevoli del problema e della soluzione che si è scelto di adottare. Come nell‘esempio riportato da TDM magazine che inserisce un disclaimer che dice: “I termini maschili usati in questo testo si riferiscono a persone di qualsiasi genere e sesso”.
Un’altra soluzione che sta scaldando gli animi può essere quella di utilizzare lo schwa, la famosa e rovesciata (ə) di cui si sta tanto discutendo nell’ultimo anno. Si tratta di un simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale, o IPA, a cui è associato un suono: per quanto difficile, quindi, è preferibile all’asterisco, in quanto può essere pronunciato. Se da una parte gli va senz’altro conferito il merito di essere una soluzione inclusiva, dall’altro è complesso da usare, da pronunciare e purtroppo non è ancora accessibile dal punto di vista della fruizione web dei testi, da parte ad esempio delle tecnologie assistive.
Detto questo, però, è bene porsi la domanda: perché sforzarsi di comunicare il più possibile inclusivo? Usare un linguaggio inclusivo significa far sì che un testo sia adatto a più persone possibile: dovrebbe essere un valore aggiunto di ogni tipo di comunicazione. Ma non solo, perché oggi le persone sono sempre più attente e sensibili a tematiche sociali, anche e soprattutto quando si tratta di fare una scelta d’acquisto. I brand che funzionano oggi sono proprio quelli che l’hanno compreso e si stanno adattando a recepire il cambiamento in atto.
I consumatori preferiscono brand inclusivi: i risultati di alcuni studi
Secondo l’edizione 2019 del Diversity Brand Index, studio condotto da Diversity e Focus Management creato proprio con l’obiettivo di misurare il livello di impegno in ottica di diversità e inclusione da parte delle aziende, l’inclusione viene premiata dai clienti e dalle clienti. Infatti, a parità di offerta, tra due aziende – una non inclusiva e l’altra sì – i ricavi premiano proprio la seconda, con un gap notevole che supera addirittura il 20%. Insomma, l’inclusività piace, anche agli italiani: circa il 75% di loro infatti preferisce proprio brand attenti alla diversità e all’inclusione.
Ma non solo: come si legge in questo articolo (in particolare nell’indagine condotta da McKinsey & Co.), sembra che il 75% dei consumatori e delle consumatrici della Generazione Z boicotterà le aziende che discriminano la razza e la sessualità nelle campagne pubblicitarie. Inoltre, il 63% degli intervistati ha affermato che i consigli di amici e conoscenti sono la fonte più affidabile per conoscere (e acquistare) determinati marchi piuttosto che altri.
Attenzione ai passi falsi e al woke washing: alcuni casi
L’inclusività premia, è vero. Ma attenzione: solo se portata avanti con sincerità e se rispecchia un vero valore. Se è usata solo come specchietto per le allodole, il rischio è che le persone se ne accorgano.
Stiamo parlando di woke washing e sì, c’entra con il pinkwashing o con il greenwashing. Secondo la definizione dello Urban Dictionary significa «usare temi di giustizia sociale come strategia di marketing». In italiano potremmo tradurlo semplicemente con un “lavarsi la coscienza”. Molte aziende o grandi gruppi internazionali, infatti, hanno recepito fin troppo bene il messaggio e hanno iniziato così ad appropriarsi di tematiche calde e attuali a livello sociale nelle proprie campagne di marketing solo per vendere di più. In pratica, l’anti-razzismo, il femminismo, l’attenzione ai diritti civili e all’uguaglianza sociale o all’ambientalismo sono sfruttati solo allo scopo di arrivare più facilmente a un determinato target di persone, facendo leva sul loro sistema valoriale.
Oggi, però, ci vuole un istante a distruggere o quantomeno a rovinare la reputazione di un brand. Per le persone, grazie alla crescente digitalizzazione, è ancora più semplice informarsi sulla reale condotta delle aziende e verificare se quanto dichiarato pubblicamente rispecchi poi un reale valore. I consumatori e le consumatrici, specie quelli della Gen Z, stanno molto attenti a questi aspetti. Se un marchio pubblicizza la diversità, ma poi all’interno dell’azienda la diversità manca è un problema. Sempre nell’analisi riportata da McKinsey & Co. si legge come:
- il 70% degli intervistati afferma di provare comprare prodotti da aziende che considerano “etiche”;
- l’80% afferma di ricordare almeno uno scandalo o una controversia che ha coinvolto un’azienda in questo senso;
- circa il 65% cerca di scoprire le origini di qualsiasi cosa compra;
- sempre l’80% si rifiuta di acquistare beni da aziende coinvolte in scandali.
I casi di woke washing non mancano. Un esempio è il celebre marchio H&M quando ha lanciato la collezione sostenibile Conscious celebrando l’utilizzo del cotone biologico e di plastica riciclata, senza però fornire dettagli sull’iter di lavorazione. O ancora, sempre H&M, portavoce anche di messaggi “femministi”, tempo fa è stata presa di mira perché venti lavoratrici della fabbrica di abbigliamento in India hanno confessato di aver subito molestie sessuali da parte di loro superiori dopo l’assassinio di una loro collega. A questo proposito, si consiglia la lettura di questo articolo del The Guardian che dimostra come la maggior parte delle lavoratrici nel settore della fast fashion dei Paesi “terzi” da cui provengono i vestiti che troviamo nelle catene subiscono abusi.
O ancora, Boohoo, altro marchio di moda, sta affrontando un’indagine per “schiavitù moderna” dopo che è venuto alla luce che gli operai (di cui la maggior parte, donne) di una fabbrica a Leicester venivano pagati £ 3,50 all’ora, mentre si facevano portavoce di messaggi femministi e celebravano la Giornata Internazionale dei Diritti della Donna (come riportato qui).
Quindi, prima di farsi portavoce di una singola campagna pubblicitaria in cui ci si mostra inclusivi bisogna riflettere e far sì che quella non sia e non resti un caso isolato.
Comunicare inclusivo richiede uno sforzo extra, è vero, e sicuramente si sbaglierà nel tentativo di farlo bene. L’obiettivo, però, è quello di provarci comunque, facendo meno errori possibili che possano danneggiare il proprio brand e in modo che il proprio messaggio arrivi a più persone possibili.
Prima di fare errori, se volete avviare una strategia di comunicazione aziendale inclusiva non esitate a contattarci allo 051520995, oppure scriveteci qui.