Di social customer service ne abbiamo parlato qualche mese fa, ma la rivoluzione di cui ha scritto Paolo Fabrizio è ancora attualissima e, spesso, sconosciuta ad aziende e realtà che pure con il pubblico si rapportano quasi quotidianamente, tanto nel mondo virtuale quanto in quello reale. Per questo, abbiamo deciso di andare direttamente alla “fonte del sapere” e, in una piacevolissima intervista telefonica, abbiamo “interrogato” Paolo Fabrizio, autore del libro “La rivoluzione del Social Customer Service” ed esperto in fatto di servizio clienti tramite social media.
Ciao Paolo, prima di tutto grazie per aver accettato di rispondere alle nostre domande. Partiamo da te: potresti dirci un po’ come è nato il tuo lavoro, qual è il tuo background professionale?
Grazie a voi. Certo, dunque come arrivo al customer service? Ci arrivo dopo aver lavorato oltre 16 anni come dipendente di un call center. Nella mia storia precedente ho avuto la fortuna di partecipare alla start-up della prima compagnia assicurativa telefonica dapprima, e poi online successivamente, e oggi nota con il nome di Direct-Line. Durante questi anni ho avuto la possibilità di ricoprire tantissimi ruoli diversi sempre in ambito customer service e dopo un breve periodo dedicato alla vendita mi sono occupato di backoffice, recupero crediti, contenziosi legali…tutte attività che mi hanno messo alla prova e mi hanno concesso la possibilità di avere contatti con tanti clienti diversi, contribuendo a costruire il mio solido background nel mondo del servizio clienti. Aggiungi il fatto che negli anni ’90 ho partecipato alla nascita di uno dei primi call center assicurativi e ho visto tutte le dinamiche che hanno portato all’inizio a una diffidenza da parte dei clienti nei confronti del call center, poi l’esplosione dei call center, mentre oggi vediamo la crisi di questo canale di contatto telefonico. Negli ultimi anni della mia attività nel mondo assicurativo mi sono appassionato ai social network perché mi sono reso conto che non solo erano già utilizzati come ottimi strumenti di marketing, ma sarebbero diventati un nuovo call center. E infatti ormai da una decina d’anni è una realtà consolidata sia in Inghilterra che negli Stati Uniti e, da una decina d’anni, le cose si stanno muovendo anche in Italia. Quindi non ho fatto altro che capitalizzare la mia esperienza nel mondo del servizio clienti, aggiungendo competenze del mondo dei social media e divento consulente nell’ambito del social customer service.
Quindi è un’esperienza che nasce sul campo con i mezzi tradizionali, anche se innovativi per allora, e poi però si affina e si specializza sul social customer service, giusto?
Esatto. Faccio un piccolo inciso: per fare bene social customer service – ovvero aiutare le aziende a farlo bene – non si possono conoscere solo i social network, ma si deve anche conoscere bene le dinamiche azienda/clienti. Se non sai questo con il servizio clienti farai dei danni.
Quindi, in effetti, quanto il servizio clienti più tradizionale ti ha aiutato nell’applicazione nei social network?
Se devo dirlo in percentuale direi che, dato il 100% della mia competenza, il 70% è dato dalla mia esperienza precedente nel servizio clienti tradizionale.
Adesso però hai un’altra professionalità, giusto?
Sì, adesso sono consulente specializzato nel social customer service e aiuto le aziende in varie attività: dalla scelta del o dei canali digitali da integrare (quali social, quali app, se integrarli e in quale modo, etc…); successivamente le guido nella scelta della piattaforma di social customer service digitale che possa essere integrabile con il proprio CRM aziendale e da cui poter gestire tutte le conversazioni digitali con il cliente, ottenendo anche statistiche non solo attendibili, ma anche quasi in tempo reale e quindi ottimizzare i processi (e questo è l’investimento maggiore in termini di tempo e soldi). In alcuni casi infatti propongo demo con alcuni provider specifici, anche in base ai desiderata e ai budget del cliente. Ed infine, dopo che il cliente ha operato una scelta nell’arco di questo processo – che come puoi immaginare dura mesi – mi occupo della formazione. In pratica, formo il personale che dall’ufficio clienti o dal call center creerà questo mini team dedicato al social customer service e la formazione riguarda sia il livello comportamentale (quindi, ad esempio: che tono di voce devono usare), sia tecnico.
Quindi la tua giornata tipo con un’azienda è: una prima fase di analisi, a cui segue una proposta in linea sia con gli obiettivi aziendali, che con la struttura dell’azienda. Ed infine una formazione specifica su quello che è il piano scelto dall’azienda.
Esatto. Questo in estrema sintesi.
Entriamo nello specifico. Poniamo il caso di un’azienda che ha una pagina Facebook e che, a domanda dell’utente, lo invita a mandare una mail per avere risposte al suo quesito. Questo è considerabile come social customer service, o è un semplice dirottamento, un “me ne lavo le mani” di pilatiana memoria?
Al di là che lo si voglia chiamare social customer service o meno, è comunque qualcosa di fatto male. Il social customer service oltre a essere una disciplina attraverso la quale eroghiamo un servizio al cliente tramite canali social o app di messaggistica, ha un altro fondamento importante: da un lato fa risparmiare tempo al cliente (meno risposte dà l’azienda, meno sforzo fa fare al cliente per ottenere quelle che cerca davvero). Dall’altro lato meno tempo si fa perdere al cliente e meno risposte vengono date, con conseguente ottimizzazione di tempi e produttività del servizio clienti. È evidente che nel momento in cui ricevo una richiesta su un canale e chiedo al cliente di spostarsi su un altro canale, faccio un autogol: perché gli chiedo di reiterare la domanda in un canale, tra l’altro, che lui non ha scelto (quindi doppio sforzo anche per il cliente). Con in più il fatto di doverlo dirottare su un canale dove lui non è detto che voglia andare. Se il cliente ha iniziato a scrivere su Facebook, forse vuole proseguire la conversazione su Facebook. Certo, rimane il fatto che nel momento in cui ci si trova a condividere dati personali ci si sposta comunque su un altro canale. Questo è un esempio classico in cui chi si improvvisa a fare social customer service su canali aziendali compie poi dei macro errori.
A proposito di errori, quali sono quelli più comuni? Anzi, meglio, ci racconti due casi opposti, uno positivo e uno negativo, così abbandoniamo la teoria e ci caliamo nella pratica?
Iniziamo dal positivo, dai, che ci tira anche un po’ su il morale. Esempi positivi ce ne sono tanti e uno mi ha colpito molto per la modalità, lo considero emblematico. Parlo di Jet Blue, una compagnia aerea americana low cost (una sorta di EasyJet statunitense, per intenderci) che è rinomata per l’ottimo servizio e l’ottimo social customer service. Cosa succede circa un anno e mezzo fa a un cliente? Che mentre è in volo, ha di fronte a sé il monitor del poggiatesta del sedile davanti, che però non funziona. Il signore allora fotografa lo schermo davanti a sé, mentre è in volo, e manda un tweet all’account dedicato al servizio clienti social della compagnia aerea. Dopo 10 minuti gli rispondono chiedendogli se quello segnalato fosse un problema che era capitato solo a lui o a più persone. Lui risponde prontamente che il problema riguarda solo lui. Dopo 5/10 minuti al massimo, il servizio clienti risponde nuovamente scusandosi tanto e invitandolo a mandare il suo codice di prenotazione attraverso un messaggio privato di Twitter, in modo da potergli accreditare un voucher per il prossimo volo, a mo’ di indennizzo per l’accaduto. Tutto questo succede in 35 minuti circa e si conclude con il cliente che su Twitter lascia messaggi di complimenti alla compagnia. Ora, bella la storia, ma qual è la dinamica dalla quale possiamo imparare? Durante l’esperienza negativa, più siamo veloci e capaci di capire qual è il problema e siamo veloci nel rispondere e risolverlo, più siamo in grado di convertire un’esperienza negativa in un cliente ancora più fidelizzato di prima che avesse l’esperienza negativa. E questo lo confermano anche le statistiche. Quindi, non è solo la capacità di dare una risposta veloce, ma di non dare risposte generiche, quanto invece mirate al problema dell’utente. La decisione da prendere deve essere immediata, non si può “far sapere” più avanti, magari dopo giorni. La risoluzione del problema è tanto importante quanto la velocità della risposta.
Un caso negativo, che ho vissuto personalmente come cliente qualche settimana fa, sul quale ho scritto anche un post a riguardo. Compagnia di telecomunicazione, che tra l’altro sono tra le prime che hanno iniziato a fare social customer service in Italia, circa quattro anni fa. Ecco cosa è successo: per conto di un’altra persona io scrivo su Twitter dicendo che avevo attivato l’alert via SMS con la mia carta di credito tramite la mia banca, per cui ogni volta che pago con carta di credito mi dovrebbe arrivare l’SMS di conferma. Ciò non avviene e ho verificato con la mia banca, sia di persona che online, che il setup è corretto, quindi non c’è nessun tipo di problematica da parte loro. Il problema quindi è della compagnia telefonica a cui chiedo di verificare. Prima risposta, veloce: dopo 40 minuti mi rispondono che sono dispiaciuti per l’inconveniente e mi invitano a scrivere il mio numero attraverso un messaggio diretto su Twitter. Quindi fin qui tutto bene: nulla da eccepire. Eseguo subito l’indicazione. Siamo a venerdì. Passano 3 giorni – che nel social customer service corrispondono a tre settimane di mancata risposta via mail, per darti un’idea (ed è questo il problema che molte aziende non colgono). Allora torno nel pubblico, e mi lamento con un Tweet aperto a tutti. Ma il problema più grosso è la risposta che mi danno in pubblico, perchè mi dicono “Ci dispiace, appena possiamo ti facciamo sapere”. Questa è una risposta inaccettabile considerando l’iter, guidato da loro, che avevo già fatto! E’ stato solo dopo una seconda lamentela che si sono occupati di me in forma privata.
In questo caso cosa è successo? Che il cliente ha dovuto scrivere più volte, sia in pubblico che in privato, ma l’azienda si è beccata delle lamentele in pubblico che non si quantificano solo nei re-tweet del mio tweet, ma anche in tutti gli altri clienti che pur non avendo fatto nessuna azione, hanno scrutato dallo spioncino la scena, prendendo quella come altre esperienze come punto di riferimento per decidere se diventare clienti o rimanere o meno in quella azienda.
Quindi prospect mancati, in sostanza.
Esattamente. Anche perchè le statistiche dicono che oltre il 90% dei consumatori si affida alle recensioni online o alle esperienze sui social network così come se a parlare fosse una stretta di amici, parenti e familiari, quando in realtà sono sconosciuti.
Che è un dato che dovrebbe interessare molto le aziende perché significa che riuscire a fare marketing anche all’interno dei forum garantisce un certo margine di fiducia e di fidelizzazione.
Esattamente.
Tiriamo un po’ le somme delle due case history. Oltre a quanto ci hai detto, mi sembra che la case history positiva ci insegni anche che per un buon servizio clienti serve anche una buona organizzazione aziendale, è corretto?
Esatto. Per poter fare un certo tipo di attività devi essere pronto non solo nella prima risposta, ma anche capire la priorità e la situazione. E per farlo bisogna avere per forza una piattaforma digitale dedicata al social customer service. Non mi riferisco a ottime piattaforme per fare content marketing o social media marketing, in cui promuovere e calendarizzare le comunicazioni. Parlo proprio di prodotti software ad hoc per questa attività, che ti gestiscono il sentiment, la priorità, il peso specifico che ha un cliente. Quindi, ad esempio, se mi arriva un messaggio adesso che è più recente di altri ma proviene da un giornalista, va subito in una sorta di lista “priorità”. In questo sistema, inoltre, devo poter assegnare ai miei diversi operatori le diverse conversazioni per far sì che seguano l’utente dall’inizio alla fine della pratica, in modo da evitare il tipico “scollamento” cliente/operatore che spesso avviene nelle aziende quando ci si passa una pratica cartacea da un reparto all’altro.
La case history negativa invece ci fa riflettere su un punto ancora più delicato: in che modo il social customer service crea profitto?
Il discorso è legato al costo per interazione: McKinsey ha svolto uno studio circa un anno e mezzo fa, analizzando alcune aziende del mercato americano (considera quindi che i dati che ti do si riferiscono al mercato americano, ma sono comunque significativi) e ha dimostrato che in un lasso di tempo predefinito di circa 10 minuti, ogni interazione via social, – in questo caso i due principali per il social customer service, Facebook e Twitter – costa 5/6 volte in meno di una telefonata. Inoltre, in termini di produttività gli operatori riescono a gestire 6/7 conversazione alla volta con clienti diversi contro l’una/due telefonate nello stesso tempo. Quindi, si tratta di risparmio in termini di costo medio per interazione e di incremento della produttività dei miei agenti/addetti al servizio. Ecco perché se poi si gestisce male una pratica, al contrario, invece che chiudere in due risposte, ho bisogno di 5/6 battute o peggio. Ora, è chiaro che non tutti i casi sono semplici da risolvere. Ma tendenzialmente bisogna avere una velocità di risposta alta, e allo stesso tempo essere esaustivi, in modo tale da prevenire fraintendimenti, solleciti, stato di ebollizione del cliente che perde la pazienza e ti sollecita anche su altri canali facendoti lavorare il doppio.
Come si deve muovere un’azienda che si affaccia per la prima volta al social customer diciamo su FB? Deve tentare di anticipare tutte le domande degli utenti, nell’ottica del “prevenire è meglio curare”o si può affidare a pratiche e documenti di gestione?
Sono due tematiche vicine: partiamo dall’anticipare le tematiche del cliente, che in gergo si dice “customer self service”. Le pagine social vengono sfruttate al massimo con link che rimandano ai siti per trovare risposte. Questo fa sì che si abbiano meno domande inutili in cui l’operatore viene occupato e il cliente può sbrigarsi prima. Rendere molto visibili le info principali, magari anche attraverso una pagina dinamica, che si alimenta attraverso le segnalazioni dei clienti, consente di creare una sorta di FAQ sempre aggiornata che evita domande inutili, ridondanti e di scarso peso. Quello che dico sempre è che la migliore risposta che puoi dare a un cliente è quella che non hai neanche avuto bisogno di dare, in ottica di self service, chiaramente.
Non solo, così facendo si fa anche un’azione di monitoraggio e ascolto, perché attraverso le domande dei clienti si riesce a capire quali sono le mancanze dell’azienda. Ci sono diversi software che consentono di restituirci dei dati statistici su questo. L’ascolto e il monitoraggio è una delle parti propedeutiche al social customer service. Infatti, il social listening viene spesso acquistato prima ancora di fare customer service per potersi attrezzare. Poi chiaramente è un’attività che l’azienda dovrebbe proseguire in modo continuativo anche quando scende in campo con un social customer service tutto suo.
Come si sceglie il social adatto per fare customer service? Nel libro “La rivoluzione del Social Customer Service” citi più volte il caso di aziende con un doppio profilo aziendale – magari uno dedicato al marketing e l’altro al customer service: è una pratica consigliabile o dipende da fattori come, ad esempio, l’ambito di appartenenza dell’azienda?
Non c’è una regola fissa. Va valutato in base alle specificità dell’azienda, dei singoli clienti e delle attività in tema di marketing che la stessa azienda sta già facendo su quel canale. Bisogna tener conto poi che i canali social sono biunivoci, quindi non si può più pensare per compartimenti stagni: non si può dividere nettamente fra marketing e social customer service. Bisogna considerare che il social customer service è dei clienti e i clienti sono ovunque: la domanda va gestita dovunque arrivi e ha lo stesso valore di una chiamata al call center.
Ci sono pro e contro dell’avere due profili: il pro è che, dividendo i profili si evita quel fastidioso inquinamento tra i contenuti di marketing e quelli service sulla stessa pagina che spesso può spaesare l’utente. Il contro di questo metodo, però, è che le persone non sono così disciplinate: non sempre sanno a che pagina rivolgersi quindi vanno comunque gestiti invitandoli a usare il profilo dedicato. È comunque una scelta che va ponderata, valutata caso per caso attraverso analisi che fanno propendere per l’una o l’altra opzione.
Davanti allo scontento di un cliente che protesta apertamente, è sempre bene rispondere anche a un commento negativo, o in alcuni casi è meglio lasciar perdere?
In linea di massima bisogna sempre rispondere a tutti. Bisogna aggiungere che in una pagina Faceboook o Twitter non possono mancare le regole di comportamento dell’utente (la famosa netiquette, ne abbiamo parlato meglio qui) per spiegare cosa gli utenti possono e non possono fare “in casa” dell’azienda. Un conto è il cliente insoddisfatto che va comunque gestito, ma quando si trasforma in una persona volgare che non si placa, allora lì non è ragionevole rispondere sempre.
Quindi, in linea di massima, si può dire che se è vero che il social è dei clienti, i clienti poi devono essere informati sulle regole della pagina?
Sì. Sembra una banalità, ma se si va nelle sezione delle pagine Facebook con le informazioni si devono trovare anche quelle che servono a regolamentare l’interazione, soprattutto gli orari, visto che i social network non vanno a dormire. Solo che loro sono aperti h24, ma gli operatori no! Quindi, quando hanno un account è dedicato parzialmente o totalmente al social customer service, deve necessariamente indicare orari e netiquette del servizio.
Nel tuo libro parli di Rivoluzione del social customer care: ce la spieghi?
La rivoluzione più grande è quella dei social network, che hanno reso le conversazioni azienda-cliente aperte. I social network sono molto utili se l’azienda risponde velocemente, bene e con il tono giusto. La conseguenza della prima rivoluzione è poi una seconda rivoluzione, tuttora ancora in atto in molte aziende soprattutto italiane, cioè quella di considerare il social customer service non un servizio clienti post vendita, ma soprattutto pre vendita. Ad esempio su un e-commmerce un utente non chiede informazioni dopo aver comprato, ma prima, attraverso chat istantanee, etc. Quindi l’altra rivoluzione è che il social customer è una leva di business per attrarre clienti, rispondere alle loro domande e diventare un servizio di vendita vero e proprio.
Oltre all’e-commerce, ci sono altri settori in cui è altamente consigliabile avere un social customer service (penso al settore bancario, assicurativo..)? Per tua esperienza, ce n’è qualcuno che richiedere un social customer service più di altri?
Oltre al settore della telecomunicazione, ci sono anche le banche, tra cui quelle native digitali che quindi sono già culturalmente pronte, come le assicurazioni online. Ma anche il settore alimentare: in generale, basta che ci sia un certo volume di conversazione che siano B2B o B2C. Come anche tutto ciò che è servizio, ad esempio il Comune di Bologna, e così via. Bisogna poi capire con l’azienda che tipo di clienti hanno, e quindi che canale tali clienti preferiscono usare per questo servizio. Questo è possibile anche attraverso le survey, molto importanti per valutare le opinioni dei clienti.
Una domanda lessicale: social customer service e social customer care, c’è una differenza?
No, non c’è nessuna differenza: togliamo momentaneamente la parola “social”. Customer service e customer care esistono da oltre 40 anni, solo che La parola “service” è usata in Inghilterra, mentre in America viene molto più usata la parola “care”, ma il concetto è lo stesso.
Parliamo di misurazione dell’efficacia del social customer service. Come faccio a capire se, chi lo sta facendo, lo sta facendo bene?
Il primo passaggio è stabilire quali obiettivi ha l’azienda. Poi, utilizzando il KPI, ovvero gli indicatori di performance, si può andare a misurare solo quello che mi interessa. Se, ad esempio, voglio ridurre il tempo medio di gestione di una pratica, allora aggiungo un ulteriore strumento al mio canale specifico (la chat live sul sito, per esempio). Dipende dall’obiettivo dell’azienda. Le KPI vanno definite dopo aver individuato gli obiettivi e vanno poi inserite nei desiderata della piattaforma che si sceglie per attivare il servizio clienti web.
E voi, come ve la cavate con questa materia bellissima e delicata che è il social customer service?